Buchi neri e Premio Nobel 2020 per la Fisica.

Il premio Nobel per la fisica di quest’anno, assegnato a Roger Penrose, Reihnard Genzel e Andrea Ghez, tre scienziati che con il loro lavoro hanno fatto luce sui “più oscuri segreti dell’Universo”.

Penrose è stato premiato per aver scoperto che la formazione dei buchi neri è coerente con la teoria della relatività generale di Albert Einstein, mentre Genzel e Getz si sono aggiudicati l’onorificenza per aver scoperto un oggetto supermassiccio al centro della Via Lattea. Oggetto supermassiccio che con ogni probabilità è proprio un enorme buco nero.

Nel 1915, il giovane Albert Einstein presentava la sua teoria della relatività generale, modificando completamente i concetti di tempo, spazio e gravità così come erano stati fino ad allora. La relatività generale, in particolare, descrive come la geometria dello spaziotempo (che descrive l’Universo) sia modificata dalla gravità: una forza che, oltre a mantenerci saldi sulla Terra, a regolare le orbite dei pianeti attorno al Sole e del Sole attorno al centro della Via Lattea, a far nascere le stelle da polveri di gas e farle collassare sotto il proprio stesso peso, è anche in grado di influenzare la forma dello spazio e lo scorrere del tempo. Tutte le prove cui è stata finora sottoposta la teoria della relatività generale hanno superato con successo il vaglio della sperimentazione. Le equazioni di Einstein prevedono, per esempio, che una massa estremamente pesante sia in grado di curvare lo spazio e di rallentare lo scorrere del tempo.

 

Ma cosa succede in presenza di una massa ancora più grande? Uno dei primi a chiederselo – a parte Einstein – fu l’astrofisico tedesco Karl Schwartzschild, che smanettando con le complicate equazioni di campo della relatività generale mostrò come una massa molto grande potesse addirittura intrappolare una porzione di spaziotempo, creando quello che poi sarebbe stato chiamato, per l’appunto, un buco nero. Diversi studi successivi ne discussero perfino alcune caratteristiche, e in particolare il cosiddetto orizzonte degli eventi, una sorta di velo circolare che avvolge e nasconde il buco nero e tutto quello che si trova al suo interno. Per dare un’idea di quanto siano densi e massicci questi oggetti, si pensi che, se la massa del Sole fosse sufficiente a renderlo un buco nero, il suo orizzonte degli eventi avrebbe un diametro di appena tre chilometri. Se lo fosse la Terra, il diametro del suo orizzonte degli eventi sarebbe lungo nove millimetri.

Dopo che la materia comincia a collassare su sé stessa fino a formare un buco nero e a creare una superficie intrappolata, dice Penrose, non c’è più alcun modo per sfuggire dall’orizzonte degli eventi e tornare dall’altra parte. Ed è questo il motivo per cui quello che c’è dentro un buco nero è totalmente inaccessibile dall’esterno.

Non riuscire a guardare dentro, o dietro, comunque, non comporta necessariamente non capire. L’esistenza, le caratteristiche e il comportamento dei buchi neri possono infatti essere inferite anche in modo indiretto, osservando i loro effetti sugli altri corpi celesti e sulla luce emessa dalle stelle. A questo punto della storia entrano in scena Genzel e Ghez, che con i loro gruppi di ricerca hanno scandagliato a lungo il centro della nostra galassia, la Via Lattea: studiando il moto di diverse stelle con telescopi a Terra e in orbita, i due scienziati sono arrivati alla conclusione che deve necessariamente esistere un oggetto supermassiccio al centro della Via Lattea: un buco nero.

Fonte articolo: wired.it

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